michelangelo janigro

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(Solo apparentemente)Niente da dire

di Silvia Valente

Questa volta non è una provocazione, né tanto meno un incentivo alla polemica.

Niente da dire torna al suo contenuto di origine, alla sua semantica accezione; non vi sono doppi sensi o sottotitoli di supporto: appare così, pura e semplice, alleggerita da ogni qualsivoglia sovrastruttura pseudo-culturale.

Questa è una mostra che non racconta, non vi è tema di riferimento sul quale porre attenzione e compiere riflessioni, non vi sono enigmatici e arcani pensieri latenti, ma tutto si traduce nella più essenziale delle interpretazioni: il segno. A confermare quanto detto sono le parole di Angiola Janigro nella presentazione: I disegni testimoniano, più della sua pittura, la coatta dannazione al fare, la paziente tessitura di una trama che mentre viene creata viene scoperta e analizzata, forma di un disquisire  che ha fame della sostanza cui applicarsi”.

Il bisogno è fisico, interiore, intellettuale se vogliamo, dettato dalla necessità più viva di produrre il segno tangibile di una gestualità che guida l’artista nei momenti di migliore coscienza di se, accompagnandolo nella più viva delle sue manifestazioni, dando vita a una libertà espressiva solo apparentemente priva di struttura. Eppure, a dispetto di quanto manifestato, la trama si cela abilmente tra segni a prima vista casuali e il canovaccio artistico si palesa all’occhio più attento. Al caso si sostituisce l’idea che lentamente si fa pensiero, intenzione.

La stessa linearità si riscontra con immediatezza nell’allestimento, curato in prima persona dall’artista, che si plasma, con efficacia, allo spazio della galleria, fornendo una chiave di lettura assolutamente leggibile dallo spettatore. Volendo compiere un’analisi sistematica si riescono a scorgere tre “filoni” principali ai quali ricondurre i numerosi lavori esposti.

Balza agli occhi la ridondante serie di disegni lungo le pareti, quasi una sorta di  cornice ideologica

all’intero corpo artistico in mostra; è il germe del niente da dire, una prolifica successione di sagome, emblema lampante di un esercizio artistico volto alla ritualità del gesto; il chiaroscuro è accademico, le simmetrie impeccabili, nel rispetto della più rigorosa ricerca dell’indefinibile. Maggiore struttura si verifica nella interessante serie delle tracce sonore; senza discostarsi troppo dall’idea di fondo, qui l’artista compie un passo innanzi e l’incontrollata azione creativa è supportata per mezzo di un insieme ordinato di indagini eseguite su base scientifica. Il suono è reso così visibile e l’armonia collima col bello.

E’ con i lavori di ritrattistica che la tensione al pittorico e al figurativo si concretizza, degna risoluzione di una progettualità che non lascia nulla al caso. Donne guerriere dalle stravaganti e geometriche acconciature rimandano alla cultura punk, underground e si fondono abilmente ai vistosi e decoratissimi orecchini indossati.

Tutto questo è matita, chiaroscuri, bianco e nero: disegno. Niente bozzetti o schizzi preparatori, ma vere e proprie opere compiute capaci di raccontare qualcosa e non, banalmente, dirla.

Qualcuno, in tempi non sospetti, ne ha dato una definizione altissima.

“E’ perché da questa cognizione nasce un certo concetto e giudizio che si forma nella mente quella tal cosa, che poi espressa con le mani si chiama disegno, si può conchiudere che esso disegno altro non sia, che un apparente espressione e dichiarazione del concetto che si ha nell’animo, e di quello che altri si è nella mente immaginato e fabbricato nell’idea”. (Vasari, Della Pittura, Cap. XV)

2011. Presentazione alla mostra personale "Niente da dire"