salvatore ruggeri

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Dal "CATALOGO MONOGRAFICO" curato dal Prof. Daniele Radini Tedeschi - Edizione Rosa dei Venti - Roma, Febbraio 2014

Dal Volume "TILTESTETICA" (Esposizione Triennale di Arti Visive Roma 2014) a cura del Prof. Daniele Radini Tedeschi - Editoriale Giorgio Mondadori, Maggio 2014

Salvatore Ruggeri, il pittore dell’etica e dell’estetica

Un simile titolo, risonante, solenne ed austero sarebbe la giusta nomenclatura critica per un artista sensibile tanto alla Bellezza quanto ai Valori. Ruggeri in realtà appartiene a quella tradizione che vide con Renato Guttuso e Antonello Trombadori, nel Dopoguerra, l’affermazione dell’estetica del Realismo.

Guttuso stesso, grazie alle sue influenti amicizie ed al suo ruolo politico - nonché artistico - nella scacchiera italiana, rappresentava uno dei due poli dominanti della cultura del nostro paese. In linee generali, se da un lato l’orientamento di Lionello Venturi giungeva sino ad Argan e proclamava una estetica dell’astratto e dell’informale, dall’altra parte il realismo era difeso e custodito da critici come Longhi, Testori e da pittori quali Guttuso e Vespignani.
Se quindi “ieri” Guttuso si ergeva a custode della pittura, oggi il ruolo di salvatore certamente spetta al Nostro Ruggeri. Un compito arduo, un incarico pieno di responsabilità senza dubbio, poiché tale posizione implica una presa di coscienza storica che il Ruggeri dimostra di possedere nella sua assoluta fedeltà alla tradizione.

Esistono due tipi di tradizione: quella storica, che ha il compito di registrare i fatti, e quella stilistica che si impegna a trascrivere i fenomeni. Salvatore Ruggeri riesce a creare un sinolo, una monade, un’aseità comprensiva di ambedue i significanti: da un lato celebra il passato attraverso i valori, ad esempio evoca antichi mestieri o immagini del passato, dall’altro procede stilisticamente ricollegandosi a quella pittura basata sul vero, sulla realtà, sulla ricerca del verismo.

Ruggeri è contemporaneamente un realista, un naturalista ed un verista.

Realista lo è per la sua partenza genealogica che trova in Michelangelo Merisi da Caravaggio il suo più annoso antenato. Caravaggio e Ruggeri hanno in comune il senso di sacralità e se il Merisi giungeva, attraverso un’apocatastasi, un combattimento interiore a trovare la fede, il Nostro pare già possederla in una accezione estremamente spirituale: trova il sacro in ogni immagine, in ogni frangente che sceglie come soggetto. Elegge quindi il reale a fonte di ispirazione e colloca la resa pittorica a liturgia del lavoro. Egli, quando si accomoda davanti al cavalletto, è ispirato quasi da una volontà superiore, le opere divengono “acherotipe” tanto esse sono pregne di quel mistero quotidiano che siamo soliti chiamare realtà.
Con il Caravaggio v’è anche un’altra analogia: la natura morta è innalzata al livello più alto della rappresentazione, essa diviene l’oggetto ed il soggetto, pur se normalissima frutta, peperoni, limoni od altro. Nella pittura di Ruggeri non esiste una graduatoria tipologica, ogni suo quadro vale per la potenza che esso racchiude, per l’amore che l’artista ha trasmesso, per l’atto di coerenza che egli ha dimostrato con la sua estrema fede al reale.

La seconda sua attitudine, dopo il realismo, è il naturalismo. Per naturalista intendo dire che egli possiede una coscienza organica. Come l’architetto Frank Lloyd Wright egli ha compreso che l’uomo moderno deve vivere assecondando la natura. Wright concepiva una urbanistica estesa, con piccole case disposte l’una distante dall’altra, nella campagna, collegate più ad una rete capace di formare la vita collettiva. Ruggeri pone il concetto di esistenza sotto lo stesso metro valutativo: l’uomo per vivere bene deve osservare bene, comprendere bene e per fare ciò necessita di un’ambiente circostante puro, incontaminato. Solo in questo modo riesce ad evocare il sacro che vi è in ogni ente. Se ad esempio Proust avesse assaggiato le sue madeleine in un bar di periferia all’ora di punta, tra chiasso, borsaioli e cellulari perennemente rumorosi, certo non avrebbe ricordato quel sapore dell’infanzia, quell’intermittenza del cuore alla base della sua nostalgia dei ricordi.

Ma oltre ad essere realista e naturalista il bravo Ruggeri è essenzialmente un verista.
Come in musica Leoncavallo, Mascagni e Puccini nel Tabarro e nella Fanciulla del West, anche l’arte ha cercato di evocare quella realtà più profonda della realtà, quella natura più radicata della natura: la verità dei fatti. Il verismo è il grado più alto di penetrazione dell’agente nell’accidente, esso consiste non solo nel rappresentare ciò che si vede, ma soprattutto nel decodificarlo, nel comprenderlo e nel criticarlo. Per critica si intende una riflessione sul compreso. La verità infatti è la realtà oramai posseduta, scandagliata e risolta. Renato Guttuso è il grande artefice del verismo.

Il pittore Ruggeri oltre ad avere Caravaggio nel suo albero genealogico può vantare anche lo stesso Guttuso.

L’opera che secondo il mio parere è la più rappresentativa dell’arte del Nostro è "18 Gennaio 1987, la visita della sera è arrivata" ove egli compie una sintesi totale e al contempo una summa generale della sua Opera. Nel quadro si vede, posto sulla sinistra il celebre pittore di Bagheria, col consueto maglione rosso, assiso come un leone, dallo sguardo fermo, fiero e sicuro. Davanti a lui un cavalletto con una tela intonsa, sopra un drappo bianco. Un poco più indietro si intravede una figura di donna, nuda e di schiena. Ma ciò che maggiormente colpisce è la tigre in primo piano, quasi domestica, e lo sfondo che si intravede dalla finestra. Si tratta perciò di una rielaborazione del famoso quadro La Visita della Sera di Guttuso, manipolato da Ruggeri quasi a voler omaggiare il suo “maestro”.

Per concludere questo excursus attraverso i mirabili dipinti di Salvatore Ruggeri è d’uopo citare un quadro meraviglioso, che esce da qualsiasi schema o categoria. Non può essere definito iperrealista, non rientra nel verismo, neanche nel realismo si intitola "Mia Madre" ed esce da classi, stilemi predisposti, pagine di storia dell’arte, poiché esso è immensamente sentito, immensamente “proprio”, intimo, unico. In questi casi e solo in essi l’arte abdica dal suo alto ruolo e si inchina innanzi agli affetti.

Daniele Radini Tedeschi